venerdì 9 ottobre 2009

Parola d'ordine:rallentare



Downshifting

(foto di Garimar)



Potrebbe sembrare una astrusa parola anglofona, ma in realtà contiene un concetto molto semplice, che in questi ultimi tempi (per fortuna) si va imponendo in varie parti del mondo .


Avevo già scritto un pò di tempo fa "aria nuova" , falice profeta in patria, a distanza di pochi anni , questo concetto ha preso piede, ed è nato una vera e proprio movimento basato su una filosofia semplice di vita , di ritorno alla natura , di scalare una marcia (downshifting), di rinuncia al superfluo.
Questa filosofia , tutt'altro che semplicistica e qualunquista, prevede il recupero dell'uomo come essere facente parte di una qualcosa di piu' complesso, e che non metta sempre e solo il proprio egoismo al centro dell'universo.
La vita inserita in un contesto piu' ampio , e in relazione agli altri "ecosistemi" è alla base del downshifting.
La rinuncia agli stili di vita comunemente dati per scontati, il ritorno alla frugalità , all'uscita delle città, è spesso una "conversione" interiore prima che esterirore. Occorre maturare al prorio interno la consapevolezza che la nostra "unica" vita trascorre tra necessità ed esigenze che sono del tutto false, e manovrate non dal proprio inconscio, ma da usi e consuetudini che seguono esclusivamente leggi di marketing, per consentire il mantenimento di quello che chiamiamo "sistema".


Staccare, rinunciare,rallentare, è difficile, ma non impossibile, e soprattutto, indipendente da cio' che consideriamo indispensabile : il denaro.
Facciamo sempre un discorso di denaro , il pensiero comune di tutti noi è sempre "mi piacerebbe, ma il denaro dove lo trovo ?".
Calati come siamo nell'egosistema macroeconomico/consumistico non riusciamo a guardare niente se non attraverso la vetrata traslucida della necessità di denaro.
Siamo intrisi di questo concetto (del tutto falso e malposto) , che ogni attività umana abbia per obiettivo o per base il denaro.
Non conosciamo piu' il vecchio e naturale concetto del vivere per vivere. Abbiam dimenticato.
Il downshifting vuole recuperare questa consapevolezza e riportare il nostro essere "persona" ad una essenza piu' naturale e cosciente del proprio ambiente.

Imparate a perdere tempodi Francesca Amoni (da Patrik Marini Wordpress)

Di corsa, affannati, divisi tra mille impegni, con i minuti contati. Instancabili. Attivi. Il cellulare? È sempre acceso. Chiamate di continuo. Risposte rapide e sbrigative. È ancora uno status symbol la mancanza di tempo? Negli Stati Uniti, la parola d’ordine sta diventando downshifting, ovvero rallentare, scalare la marcia, rinunciare volontariamente a una parte di reddito in cambio di tempo per stare con se stessi, i figli, il partner, gli amici. C’è perfino un movimento, La semplicità volontaria, che propone libri, dibattiti, newsletter e gruppi di sostegno. Il suo motto? Less is more, di meno (meno lavoro, meno corse, meno debiti) è di più (più ore con chi si ama). Lo stesso messaggio è lanciato dalla regina del talk show più seguito dagli americani, Oprah Winfrey, nel suo nuovo ma già popolarissimo mensile O. Oprah auspica il ritorno allo “spirito della famiglia”, perché se, vent’anni fa, erano i problemi economici la principale causa dei conflitti coniugali, oggi è la mancanza di momenti insieme. Il che coincide con quanto consiglia John D. Drake, psicologo e consulente aziendale, nel volume How to work less and enjoy life more (come lavorare meno e godersi di più la vita, ed. Berret-Koehler). È un manuale di self-help come ne circolano tanti negli Stati Uniti, con un programma da realizzare attraverso piccoli e graduali cambiamenti. “Prima di tutto devi soppesare, valutare la tua esistenza, ascoltare il disagio, perché potresti scoprire che stai barattando il denaro con il tempo”, dice Drake. “Pochi si decidono a mettere in atto piccole strategie, del tipo: non lavorerò oltre le 17.30, né nel weekend. Finché un evento traumatico, come la richiesta di divorzio da parte del partner o problemi di salute, non impongono un brusco cambiamento di rotta. Anche se dopo l’11 settembre, con la guerra e i suoi costi economici, non sembra il momento più adatto per lavorare meno, piccole trasformazioni fanno bene al singolo e alla comunità”. Pioniere del cambiamento fu Robert B. Reich, ministro del Lavoro durante la prima presidenza Clinton: scandalizzò tutti, dimettendosi da quell’incarico tanto prestigioso per passare più tempo con la famiglia. “Conosco numerosi downshifter che sembrano felicissimi della loro nuova vita “rallentata”. Io ho abbandonato un lavoro di 15 ore a Washington per uno di nove a Boston, e non potrei essere più contento”, scrive l’ex ministro in L’infelicità del successo (Fazi), ormai un libro di culto negli Stati Uniti, da poco uscito in Italia. Confessa di aver spulciato, anche lui, tra manuali fai-da-te, audiocassette, corsi a domicilio, newsletter e guide, per trovare un equilibrio migliore tra il lavoro e il resto della vita. “Sta diventando sempre più difficile da raggiungere”, spiega, “perché la logica della nuova economia fa sì che si presti più attenzione al lavoro e meno alla vita individuale”. Ma la promessa della modernità era un’altra: tecnologie e rivoluzione elettronica avrebbero dovuto consentirci di avere sempre più tempo a disposizione. Un tempo liberato, si diceva. Un tempo per noi stessi. Per la cura del corpo e dell’anima. A ben guardare, la promessa è stata mantenuta: in un secolo, le ore di lavoro di un dipendente sono scese dalle 3.160 all’anno dell’inizio del Novecento alle circa 1.750 di oggi. Chi ottiene il primo impiego a 20 anni e smette a 60 lavora 80 mila ore su 530 mila di vita. Gliene restano 450 mila, di cui – tolte almeno dieci al giorno per dormire, mangiare e così via – più o meno 230 mila per fare ciò che desidera. “E non è poco”, commenta Domenico De Masi, docente di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma e autore di Ozio creativo (Rizzoli). “Ma l’accelerazione tecnologica e le modalità di organizzazione del lavoro sono sconfinate nel tempo libero. Chi si guadagna da vivere con il cervello (un 40 per cento) difficilmente riesce a staccare la spina, anche la sera o nel fine settimana. E chi svolge un lavoro intellettualmente poco impegnativo, passa gran parte del tempo a raggiungere la fabbrica o l’ufficio”. Per spiegare che cosa è accaduto, al pubblicitario Antonio Rainò è venuta in mente l’immagine dell’uovo. Nell’era industriale fordista, la giornata media di una persona poteva essere paragonata a un uovo: il guscio rappresentava la giornata di 24 ore e conteneva, ben divisi, il tuorlo (il tempo dedicato al lavoro) e l’albume (quello riservato agli svaghi). Ora, dice Rainò, il tuorlo s’è rotto, mescolandosi all’albume. Così diventa difficile separare i diversi momenti della giornata. “Il richiamo del duro lavoro”, osserva Reich, “si intrufola in tutti gli spazi vuoti della vita, perché ai fax, ai messaggi di posta vocale ed elettronica, ai cercapersone, ai cellulari bisogna rispondere. Ci rintracciano quando stiamo facendo altro: quando camminiamo, viaggiamo o dormiamo. Certo, questi aggeggi si possono spegnere, ma la tentazione di tenerli accesi per nuove opportunità professionali, o di incontri, è grande”. Gli americani, data la grande competizione e la dinamicità del mercato, stanno lavorando duramente: ogni anno, in media, 350 ore in più rispetto agli europei e perfino ai giapponesi, notoriamente super laboriosi. “Ma con il tempo, anche gli altri “vorranno” imitare gli americani, man mano che le loro economie seguiranno il percorso tracciato dagli Usa”, sostiene ancora Reich. In breve, i vantaggi della nuova era hanno un prezzo: vite più frenetiche, meno sicure, economicamente più divergenti, socialmente più stratificate. Tanto che la condizione odierna per eccellenza è la fatica, e non l’ozio. “Perché non ci sono maestri che l’insegnano. C’è solo chi insegna il lavoro”, dice De Masi. “Invece, l’ozio è l’anticamera della creatività, mentre il lavoro è onnivoro, assorbente, tutto finalizzato a soddisfare i bisogni quantitativi”. Di recente, anche le nostre librerie pullulano di manuali che consigliano le modalità più diverse per rallentare il passo. Dall’ormai celebre trilogia del filosofo francese Pierre Sansot, Passeggiate, Sul buon uso della lentezza e Vivere semplicemente (Pratiche), all’Arte di non far nulla della scrittrice Veronique Vienne (Mondadori). Dall’Elogio della siesta di Bruno Comby (San Paolo) a Le virtù dell’ozio di Armando Torno (Mondadori). Mentre David Le Breton, docente all’Università di Strasburgo, in Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Feltrinelli) riafferma il valore del camminare. Lo definisce un modo di aprirsi al mondo, che fa nascere l’amore per la semplicità e per la lenta fruizione del tempo. Un espediente per riprendere contatto con se stessi, perché nell’andare ci si interroga, si medita su un’inattesa gamma di questioni che affiorano alla mente, e che non troverebbe udienza altrimenti. Potrebbe sembrare una forma di nostalgia, oppure di resistenza, mentre rappresenta il trionfo del corpo e soprattutto dei piedi, che al momento servono soltanto a guidare l’automobile, a salire sui mezzi pubblici o a fare pochi passi. Vero è che lui, in fondo, a correre va nel fine settimana. Ma Le Breton ha la risposta pronta: l’aver ridotto il camminare a un’attività di svago la dice lunga sulla considerazione che, nella società di oggi, hanno il corpo e il tempo. Ma davvero siamo tanto avidi di momenti liberi? Davvero ci mancano? O, piuttosto, vogliamo occupare a qualsiasi costo quelli che abbiamo? “I tempi morti ci mettono di fronte alla precarietà della vita. E l’accelerare comporta la saturazione di ogni porosità della giornata”, precisa Romano Màdera, psicoanalista junghiano. “E se una volta c’erano l’essere e l’avere, ora c’è il fare in continuazione, per non avvertire l’abisso depressivo, disfunzionale alla vita sociale. Il diffuso ricorso alle tecniche di meditazione orientale, ai massaggi e alla stessa psicoterapia sono nient’altro che contromosse: mi fermo e prendo del tempo. Un fare, senza fare”. Sulle soluzioni individuali, però, sullo scalare la marcia da soli, Reich è molto scettico. In fondo, dice, siamo tutti su uno stesso treno, che va a forte velocità. E avverte: “Possiamo riflettere su come ci piacerebbe vivere la vita. Possiamo gestire meglio il tempo, spendere meno soldi, camminare, smettere di guardare la televisione. Però operiamo all’interno di un sistema, dove le scelte sociali influenzano quelle personali. E per cambiare il nostro stile di vita, dobbiamo partire dalle decisioni prese come collettività”.

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